Diabete 1, un farmaco può rallentare l’arrivo in chi è a rischio

Per la prima volta un farmaco è riuscito a ritardare l'esordio della malattia di oltre due anni. Lo studio presentato a San Francisco

San Francisco – Tra tutti i diabetici quelli che hanno il tipo 1 sono solo una minoranza, attorno al 10 per cento. E sono prevalentemente bambini e adolescenti, perché il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune in cui gli anticorpi prodotti dall’organismo attaccano e distruggono le proprie cellule Beta del pancreas, quelle che producono insulina. Il risultato è che l’insulina si azzera e non può più regolare il glucosio nel sangue, che aumenta provocando iperglicemia. La terapia è iniettarsi insulina per tutta la vita.

Lo studio

Uno studio presentato al congresso americano del diabete, l’Ada (american Diabetes association), in corso a San Francisco, ha dimostrato per la prima volta che un farmaco utilizzato per le malattie autoimmuni – il teplizumab – riesce a ritardare la malattia due o più anni nei soggetti ad alto rischio, essenzialmente fratelli o figli di malati. Lo studio – pubblicato sul New England Journal of Medicine – ha reclutato 76 persone tra 8 e 49 anni ad altissimo rischio ma non ancora diabetici e li ha divisi in due gruppi, dando al primo il farmaco e al secondo il placebo. Testandoli dal punto di vista glicemico con regolarità.

I risultati

I risultati sono incoraggianti, soprattutto se si considera che non ci sono alternative, nel senso che non si conoscono modi per ritardare la malattia.  Durante lo studio – condotto da Type 1 Diabetes TrialNet, con fondi degli Hih americani – ha sviluppato diabete il 43 per cento dei pazienti trattati con teplizumab e il 72% di quelli che prendevano placebo. Con tempi anche sensibilmente diversi: la linea mediana è stata di più di 24 mesi per il gruppo placebo e oltre 48 per il gruppo farmaco. Quindi più tempo guadagnato e meno casi in chi prendeva il farmaco.

“La differenza è impressionante – ha commentato Lisa Spain, che ha messo a punto il progetto dello studio- ed è la prima volta che c’è una evidenza che il diabete di tipo 1 può essere ritardato con interventi precoci. I risultati sono importanti, soprattutto per i giovani che hanno parenti con la malattia, poiché sono alto rischio e possono trarre beneficio da uno screening precoce e dal trattamento”.

L’uso sui sani a rischio

Questo farmaco era già stato utilizzato in persone con una diagnosi recente di diabete di tipo 1 dimostrando di rallentare la perdita di cellule Beta del pancreas. “MA non era mai stato usato in persone che non avevano la malattia – precisa l’autore principale dello studio, Kevan C. Herold, del’università di Yale – e noi volevamo invece verificare se potesse essere efficace anche nei soggetti che avevano solo un rischio elevato ma non la malattia”.
L’effetto del farmaco è stato maggiore nel primo anno di somministrazione, anno in cui il 41 per cento dei partecipanti, soprattutto nel gruppo placebo, ha sviluppato la malattia. Probabilmente l’età ha avuto un ruolo perché bambini e adolescenti hanno in genere una progressione più rapida verso la malattia. Influenzata anche da un sistema immunitario molto attivo, che può anche spiegare l’efficacia del teplizumab, un farmaco che modula la risposta del sistema immunitario stesso. Inoltre chi ha risposto bene alla terapia aveva alcuni anticorpi specifici e altre caratteristiche immunitarie.

Il passo successivo

Insomma, se è presto per cantare vittoria, questo risultato – spiega eccitato Griffin P. Rodgers, direttore del Niddk, sponsor dello studio – dimostra che i decenni di ricerca nello studio del diabete di tipo 1 può portare a trattamenti promettenti. Adesso aspettiamo il passo successivo”.
Lo studio infatti apre la porta ad una speranza. “Molto deve essere fatto e ritardare non vuol dire prevenire – commenta Andrea Giaccari, diabetologi del policlinico universitario Gemelli di Roma – ma è una buona notizia per tutti quei pazienti che non hanno scelta alla terapia iniettiva di insulina, che ha comunque un impatto sulla qualità della vita”.

 

Elvira Naselli

 

fonte: Repubblica

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Repubblica

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